20 settembre 2005

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie

Eccomi ancora qui come un virtuale Don Chiscotte a combattere i mulini a vento e a difendere i miei lidi di riposo e pace dagli attacchi degli scellerati che osano violare il mio idillio.
Lo so non sarà facile risollevare le sorti del vostro pensiero sui videogiochi, ma cercate di dimenticatevi di ciò che pensate/sapete o pensare di sapere.
Il titolo del post serve per elevare il livello medio del post e a darmi un’aria boriosa e perché proprio ieri è stata citata, a caso naturalmente, durante una breve discussione; ma anche per introdurre l’argomento che voglio trattare.
Fatta questa noiosa, per quanto doverosa premessa, iniziamo a parlare della poesia nei videogiochi.
“Come ti permetti di avvicinare una forma d’arte eccelsa a una giovanile forma di ricreazione?”.
Potrei dare molte risposte a questa domanda, potrei, in maniera molto intelligente, fare finta di niente, ma visto che l’intelletto non è dalla mia risponderò che il blog è mio e ci faccio ciò che voglio.
Oggi porto ad esempio un videogioco che, purtroppo, passò inosservato ai più nonostante avesse ricevuto gli elogi della critica e la spassionata ammirazione dei pochi commossi giocatori che lo comprarono.
Cos’ha di particolare ICO?
L’incipit del gioco non è sicuramente dei più originali visto che si tratta di fuggire da un castello, tra l’altro bellissimo e coerente dal punto di vista architettonico, dove il nostro alter ego è stato rinchiuso vista la sua anormalità, è portatore di due corna (niente di strano diranno le donne) ma in una società collocata approssimativamente nel medioevo questo non era certo fonte di vanto.
Il gameplay, ovvero la tipologia di gioco composta da comandi, operazioni possibili e quant’altro influenzi l’esperienza di gioco, non è certo innovativo rispettando i classici canoni del settore.
La sfida che offre al giocatore è quantomeno ridicola visto che è impossibile morire e che il gioco non brilla per longevità.
La trama? Diciamo che non esiste.. anche se il protagonista deve salvare sia se stesso sia una ragazza anch’essa imprigionata per una sua diversità, i due non comunicano mai visto che non parlano la stessa lingua e la ragazza sembra inoltre molti reticente ai rapporti interpersonali.
Le musiche sono in linea con le produzioni del genere, belle certamente all’interno del contesto ludico, ma difficilmente apprezzabili da chi non abbia provato il gioco.
Ma allora perché questo gioco è definito da molti come il più vicino esempio di poesia in ambito videoludico?
Cercherò di dare una mia interpretazione. Proprio come nella poesia non è certo il tema trattato o le parole usate (amore/cuore/dolore/….) che coinvolgono emotivamente il lettore, ma la capacità dell’autore di creare immagini oniriche che stimolino la fantasia del lettore e suscitino partecipazione emozionale in chi legge.
ICO riesce in questo in maniera molto tenera, infatti ogni giocatore crea una storia che non c’è, semplicemente perché l’insieme delle percezioni che coglie (vista, udito) stimolano l’animo che non ritiene sufficiente ciò che il gioco da e cerca di creare un universo coerente.
Come nel sabato del villaggio di G. Leopardi (tipico poeta da pelliccia…… si lo so è vecchia ma non resistevo…) l’autore ci da solamente qualche informazioni marginale e personale sull’universo dei due innamorati, si d’accordo solo uno era innamorato.
Il resto lo crea il lettore… chi non ha immaginato Giacomo spiare da dietro le imposte? Cosa pensava la ragazza di quel maniaco che la spiava, oltretutto anche brutto? Le amiche la prendeva in giro? I genitori lo sapevano e accettavano visto che era un “buon partito”? Chi non ha immaginato il “pessimista cosmico” calcolare le tempistiche dell’amata in modo da incontrarla “casualmente” in strada o semplicemente per non saltare l’appuntamento alla finestra? Chi non ha immaginato la fervida immaginazione del poeta lavora freneticamente per creare immagini… vabbè avete capito..
In ICO non si riesce a non scrivere mentalmente una storia d’amore, sia esso fraterno o dolcissimo di due giovani innamorati uniti nelle avversità.
La donzella al seguito infatti risulta più un impiccio che una risorsa per superare le difficoltà proposte dal gioco, infatti per farla camminare è necessario tenerla per mano o al limite chiamarla per farle percorrere brevi e semplici tratti di strada; ad aumentare il senso di protezione che si ha sulla ragazza è la sua incapacità di difendersi, se lasciata troppo tempo da sola infatti delle ombre faranno in modo di catturare la ragazza e dare il “Game Over”. Visto che con un bastone possiamo facilmente sbarazzarci delle ombre va da se che il pericolo non sono le ombre stesse quando la distanza che mettiamo tra i due.
L’indissolubile legame che unisce i due non fa che rafforzare il bisogno di creare una storia che vada oltre quello offerto dai programmatori, e questa storia è personale, ogni giocatore gli da le sfumature che vuole, da delle finalità diverse al loro rapporto.
Perché il giovane aiuta la ragazza che gli è di peso e di nessun aiuto? Cosa prova per lei? Perché lei è così silenziosa? Cosa l’ha portata lì dentro visto che non ha deformazioni fisiche evidenti? Cosa sperano di fare insieme una volta fuori, loro “diversi” in un mondo che non ha esitato ad esiliarli già una volta?
Alla fine quindi il messaggio che ognuno trae dal gioco è personale e nasce dal proprio cuore e dalle esperienze personali, arricchendo l’avventura videoludica in maniera unica ed esclusiva proprio come una poesia.
Per chi è interessato al gioco ecco una bella recensione on-line (http://www.everyeye.it/ps2/articolo.asp?id=825)
Saluti