Ho appena finito di leggere il saggio “Tecnologia e moralità del Cyberspazio: Internet, religione, cinema e videogames. Una libera riflessione sull’oggi” di Luigi Marrone, rintracciabile presso il portale www.videoludica.com
Il saggio verte principalmente su due influenze della tecnologia moderna negli uomini:
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la moralità individuale (anche e soprattutto di tipo religiosa) nell’era della navigazione fruibile dalla maggioranza della popolazione;
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la moralità all’interno dello spazio videoludico.
Nella prima parte del saggio, che tratto marginalmente visto che lo ritengo abbastanza fine a se stesso e assolutamente nozionistico, l’autore ha esagerato nelle speculazioni cercando qualcosa che personalmente ritengo sminuire il significato della religione/fede dell’essere umano. Ritengo che la formattazione del proprio Hard Disk dalle immagini pornografiche o violente non possa, nella maniera più assoluta, essere assimilata all’atto della confessione (per chi è credente) o, semplicemente, all’atto di introspettiva ricerca della propria integrità.
Nella seconda, al contrario, l’autore tratta una visione alternativa e assolutamente brillante della demonizzazione dei videogiochi da parte della stampa generalistica e approssimativa italiana.
L’autore, come molti nati nella generazione dello sdoganamento del videogioco da hobby fruibile da “sfigati” a primario passatempo e oggetto di saggi, cerca di “difendere” il medium offrendo una sua interpretazione.
Dopo una lunga premessa in cui espone la sua idea della scissione “astratta” del corpo dallo spirito del video giocatore.
Lo scrittore ci/si pone questo interrogativo (cit.):
Essendo gli spazi videoludici meri spazi virtuali in grado di accogliere gli avatar dei gamers, vale a dire la loro parziale essenza pulsionale traslata/metaforizzata in un corpo/simulacro digitale che ne permette appunto la manifestazione, ed essendo l’anima la sostanza moralmente identificante l’individuo, è dunque lecito considerare moralmente l’agenza del videogiocatore all’interno di un videogioco? Il videogioco, considerato da una tale prospettiva spirituale, è dunque uno spazio d’agenza morale?
A cui si risponde (cit.):
Come detto in precedenza, operare in un contesto fisio-trascendente/fisico-occultante quale Internet, può lasciare naturalmente emergere la parte pulsionale normalmente più inibita dell’utente.
A favore della dicotomia corpo-spirito quindi, è come se in assenza di corpo persista solo la componente spirituale più pura dell’uomo,
L’intuizione allarga la visione, apre nuove prospettive.
Se davvero, durante la fruizione del game, lo spirito è libero dal corpo e quindi libero di agire emancipato dalle costrizioni punitive del mondo reale ha finalmente la possibilità di esprimere tutte le emozioni “represse” dal comune senso della civiltà.
Con questo assunto si giustificherebbero molte cose: il crescente successo di giochi dove lo scopo è di uccidere tutto quello che si muove (First Personal Shooter), giochi dove si ha la possibilità (non intesa come scopo del gioco) di uccidere innocenti (caso della famosissima serie Grand Theft Auto).
L’utente ha modo finalmente di svincolarsi delle frustrazioni represse utilizzando un medium facilmente reperibile (conclusione invero molto utilizzata).
Ma è qui che l’autore cambia le carte in tavola e propone una nuova prospettiva delle cose confrontando il videogioco con il medium a quello che più spesso gli viene, erroneamente, accostato: il film.
La differenza sostanziale tra i due sta nella capacità decisionale che l’utente finale possiede.
Se la visione di un film è modificabile esclusivamente con l’uscita dalla sala, nei videogiochi l’utente può “liberamente” (su questo argomento tornerò in seguito) scegliere quanto meno l’approccio e ha una visione Deux ex machina degli eventi che visiona.
Nei film la morale delle azioni è vincolata a diversi fatto NON modificabili da parte del fruitore: sceneggiatura, regia, interpretazione. La vendetta di un pacifico cittadino per l’uccisione dei cari è cosa buona e giusta (il vendicatore della notte, il Punitore e altri migliaia di film), come la maggior parte dei film ci inducono a credere. La visione soggettiva della vicenda discerne chiaramente il bene e il male nei personaggi.
Il videogioco, per quanto possa essere inconcepibile, offre diverse alternative all’utilizzatore; rimane la possibilità di decidere di non completarlo, ma rimane la possibilità (certamente non in tutti, ma in moltissime categorie) di approcciarsi in maniera diversa al gioco.
La rettitudine o meno del personaggio è soggettiva e difficilmente vincolabile, la decisione di come avanzare nel gioco (tenendo sempre come punto di riferimento le due tipologie di videogiochi più frequentemente demonizzate, gli shooter e i GTA e derivati) è personalizzabile, modificabile e più o meno non obbligata dal game designer (convenzionalmente il corrispettivo del regista).
E’ lecito quindi affermare che il videogioco abbia la precisa tendenza ad informare della propria realtà (che prenda a modello/rimandi al reale o meno) ai fini della sfida del gioco stesso, piuttosto che a moralizzarla decisamente, proponendo una visione digitale che ospiti l’utente ad una partecipazione attiva.
Le possibilità di scelta offerte dal gioco, con il proprio carico di relative conseguenze sul piano dello stesso, scongiurano l’assoggettamento al messaggio ludico attraverso una analisi necessariamente critica della propria performance e delle tematiche gioco-contestuali che essa solleva.
Molto spesso l’uso di violenza, o di qualsiasi altro atto “condannabile” nella vita reale, perde spesso la valenza anticonformista dal momento che tale comportamento è stato previsto in fase di progettazione e quindi smarrisce l’aurea di illecito che, spesso, è motivo stesso del gesto.
Il carattere drammatico degli eventi nei videogiochi è come sminuita da altri fattori direttamente o indirettamente impliciti dal videogioco stesso.
In primo luogo la assopimento delle coscienze umane tramite la Televisione; è oramai consuetudine il passaggio di immagini forti, che siano essi di tipo violento, sessuale o di discriminazione, durante gli orari “familiari”.
La crescente popolarità del gioco cooperativo (sia esso on-line che off-line) con la possibilità di comunicare con gli altri utenti, porta inevitabilmente ad una ironica analisi degli situazioni presenti nel gioco facendo crescere l’aspetto di sfida a quello della brutalità che si sta commettendo.
Altro aspetto che, inspiegabilemente, passa in secondo piano è che le persone nei videogiochi cercano esclusivamente divertimento e svago e certamente non cercano un simulatore di violenza o situazioni da prendere ad esempio.
Purtroppo la criminalizzazione del media videoludico è pratica assai diffusa nella società ipocrita moderna. È sicuramente più facile colpevolizzare un gioco, piuttosto che prendersi le responsabilità di una cattiva cultura dell’informazione o di una colpevole mancanza di controllo e supervisione.
Indicativo è lo sgomento creatosi in ambito europeo riguardo la campagna calunniosa nei confronti del videogioco “Rules of Rose”: campagna attuata esclusivamente in Italia, nata e fomentata fertilizzata dall’ignoranza della carta stampata e, soprattutto, dei politici; una classe dirigente che ci dovrebbe rappresentare, ma che purtroppo vive lontano da quello che dovrebbe essere il loro campo.. le persone.
Se in Italia la campagna di incriminizzazione del gioco ha tenuto banco per diverse settimane, sui giornali, in Tv e nei bar, nel resto d’Europa il gioco è passato assolutamente inosservato, palesando l’ignoranza della nostra società, che ancora resta fedele alla convinzione che tutto quello che non si conosce/capisce è indubbiamente pericoloso.