04 giugno 2007

Ho appena finito di leggere il saggio “Tecnologia e moralità del Cyberspazio: Internet, religione, cinema e videogames. Una libera riflessione sull’oggi” di Luigi Marrone, rintracciabile presso il portale www.videoludica.com

Il saggio verte principalmente su due influenze della tecnologia moderna negli uomini:

  • la moralità individuale (anche e soprattutto di tipo religiosa) nell’era della navigazione fruibile dalla maggioranza della popolazione;

  • la moralità all’interno dello spazio videoludico.

Nella prima parte del saggio, che tratto marginalmente visto che lo ritengo abbastanza fine a se stesso e assolutamente nozionistico, l’autore ha esagerato nelle speculazioni cercando qualcosa che personalmente ritengo sminuire il significato della religione/fede dell’essere umano. Ritengo che la formattazione del proprio Hard Disk dalle immagini pornografiche o violente non possa, nella maniera più assoluta, essere assimilata all’atto della confessione (per chi è credente) o, semplicemente, all’atto di introspettiva ricerca della propria integrità.

Nella seconda, al contrario, l’autore tratta una visione alternativa e assolutamente brillante della demonizzazione dei videogiochi da parte della stampa generalistica e approssimativa italiana.

L’autore, come molti nati nella generazione dello sdoganamento del videogioco da hobby fruibile da “sfigati” a primario passatempo e oggetto di saggi, cerca di “difendere” il medium offrendo una sua interpretazione.

Dopo una lunga premessa in cui espone la sua idea della scissione “astratta” del corpo dallo spirito del video giocatore.

Lo scrittore ci/si pone questo interrogativo (cit.):

Essendo gli spazi videoludici meri spazi virtuali in grado di accogliere gli avatar dei gamers, vale a dire la loro parziale essenza pulsionale traslata/metaforizzata in un corpo/simulacro digitale che ne permette appunto la manifestazione, ed essendo l’anima la sostanza moralmente identificante l’individuo, è dunque lecito considerare moralmente l’agenza del videogiocatore all’interno di un videogioco? Il videogioco, considerato da una tale prospettiva spirituale, è dunque uno spazio d’agenza morale?

A cui si risponde (cit.):

Come detto in precedenza, operare in un contesto fisio-trascendente/fisico-occultante quale Internet, può lasciare naturalmente emergere la parte pulsionale normalmente più inibita dell’utente.

A favore della dicotomia corpo-spirito quindi, è come se in assenza di corpo persista solo la componente spirituale più pura dell’uomo,

L’intuizione allarga la visione, apre nuove prospettive.

Se davvero, durante la fruizione del game, lo spirito è libero dal corpo e quindi libero di agire emancipato dalle costrizioni punitive del mondo reale ha finalmente la possibilità di esprimere tutte le emozioni “represse” dal comune senso della civiltà.

Con questo assunto si giustificherebbero molte cose: il crescente successo di giochi dove lo scopo è di uccidere tutto quello che si muove (First Personal Shooter), giochi dove si ha la possibilità (non intesa come scopo del gioco) di uccidere innocenti (caso della famosissima serie Grand Theft Auto).

L’utente ha modo finalmente di svincolarsi delle frustrazioni represse utilizzando un medium facilmente reperibile (conclusione invero molto utilizzata).

Ma è qui che l’autore cambia le carte in tavola e propone una nuova prospettiva delle cose confrontando il videogioco con il medium a quello che più spesso gli viene, erroneamente, accostato: il film.

La differenza sostanziale tra i due sta nella capacità decisionale che l’utente finale possiede.

Se la visione di un film è modificabile esclusivamente con l’uscita dalla sala, nei videogiochi l’utente può “liberamente” (su questo argomento tornerò in seguito) scegliere quanto meno l’approccio e ha una visione Deux ex machina degli eventi che visiona.

Nei film la morale delle azioni è vincolata a diversi fatto NON modificabili da parte del fruitore: sceneggiatura, regia, interpretazione. La vendetta di un pacifico cittadino per l’uccisione dei cari è cosa buona e giusta (il vendicatore della notte, il Punitore e altri migliaia di film), come la maggior parte dei film ci inducono a credere. La visione soggettiva della vicenda discerne chiaramente il bene e il male nei personaggi.

Il videogioco, per quanto possa essere inconcepibile, offre diverse alternative all’utilizzatore; rimane la possibilità di decidere di non completarlo, ma rimane la possibilità (certamente non in tutti, ma in moltissime categorie) di approcciarsi in maniera diversa al gioco.

La rettitudine o meno del personaggio è soggettiva e difficilmente vincolabile, la decisione di come avanzare nel gioco (tenendo sempre come punto di riferimento le due tipologie di videogiochi più frequentemente demonizzate, gli shooter e i GTA e derivati) è personalizzabile, modificabile e più o meno non obbligata dal game designer (convenzionalmente il corrispettivo del regista).

E’ lecito quindi affermare che il videogioco abbia la precisa tendenza ad informare della propria realtà (che prenda a modello/rimandi al reale o meno) ai fini della sfida del gioco stesso, piuttosto che a moralizzarla decisamente, proponendo una visione digitale che ospiti l’utente ad una partecipazione attiva.

Le possibilità di scelta offerte dal gioco, con il proprio carico di relative conseguenze sul piano dello stesso, scongiurano l’assoggettamento al messaggio ludico attraverso una analisi necessariamente critica della propria performance e delle tematiche gioco-contestuali che essa solleva.

Molto spesso l’uso di violenza, o di qualsiasi altro atto “condannabile” nella vita reale, perde spesso la valenza anticonformista dal momento che tale comportamento è stato previsto in fase di progettazione e quindi smarrisce l’aurea di illecito che, spesso, è motivo stesso del gesto.

Il carattere drammatico degli eventi nei videogiochi è come sminuita da altri fattori direttamente o indirettamente impliciti dal videogioco stesso.

In primo luogo la assopimento delle coscienze umane tramite la Televisione; è oramai consuetudine il passaggio di immagini forti, che siano essi di tipo violento, sessuale o di discriminazione, durante gli orari “familiari”.

La crescente popolarità del gioco cooperativo (sia esso on-line che off-line) con la possibilità di comunicare con gli altri utenti, porta inevitabilmente ad una ironica analisi degli situazioni presenti nel gioco facendo crescere l’aspetto di sfida a quello della brutalità che si sta commettendo.

Altro aspetto che, inspiegabilemente, passa in secondo piano è che le persone nei videogiochi cercano esclusivamente divertimento e svago e certamente non cercano un simulatore di violenza o situazioni da prendere ad esempio.

Purtroppo la criminalizzazione del media videoludico è pratica assai diffusa nella società ipocrita moderna. È sicuramente più facile colpevolizzare un gioco, piuttosto che prendersi le responsabilità di una cattiva cultura dell’informazione o di una colpevole mancanza di controllo e supervisione.

Indicativo è lo sgomento creatosi in ambito europeo riguardo la campagna calunniosa nei confronti del videogioco “Rules of Rose”: campagna attuata esclusivamente in Italia, nata e fomentata fertilizzata dall’ignoranza della carta stampata e, soprattutto, dei politici; una classe dirigente che ci dovrebbe rappresentare, ma che purtroppo vive lontano da quello che dovrebbe essere il loro campo.. le persone.

Se in Italia la campagna di incriminizzazione del gioco ha tenuto banco per diverse settimane, sui giornali, in Tv e nei bar, nel resto d’Europa il gioco è passato assolutamente inosservato, palesando l’ignoranza della nostra società, che ancora resta fedele alla convinzione che tutto quello che non si conosce/capisce è indubbiamente pericoloso.

01 luglio 2006

Le 500 lire di carta

Premessa questo è l’ENNESIMO post “nostalgico” del vostro ardimentoso blogger…
Quindi sapete a cosa andate incontro, non venite poi a rompermi i maroni…

L’occasione per questo tuffo nel passato mi è data da un gioco che mi è stato regalato per il mio compleanno (vedere a proposito il blog di KIA.
I miei lungimiranti amici mi hanno donato “Chibi Robo” un gioco dall’aspetto “fanciullesco” e catalogabile nei generi action/platform.


Protagonista del gioco è, appunto, un ChibiRobo: un robotino tuttofare il cui scopo per il quale è stato progettato, costruito e regalato (in occasione del compleanno della piccola, complessata, figlia) è quello di rendere le persone felici felici felici….come? pulendo le orme del cane, raccogliendo le carte delle caramelle, le scatole di biscotti finiti, estirpando erbacce e lavori simili. Eseguendo queste “semplici” mansioni il nostro piccolo eroe guadagna punti cuore che gli permettono la crescita (in puro stile RPG) del nostro amico metallizzato permettendogli di acquisire oggetti che migliorano le sue prestazioni tramite un PC presente nella sua tana.
Particolarmente importante per il mio elaborato è la distanza percorribile dal robot. Infatti egli possiede una spina (del tipo americano se vogliamo essere precisi) con la quale dovrà necessariamente ricaricarsi dalle normali prese di corrente disseminate all’interno della casa. All’inizio della nostra avventura la distanza percorribile è esigua, ma con l’ingremento dei punti cuore (ottenibili rendendo felici gli abitanti della casa) è possibile avere pile più potenti con le quali è possibile percorrere maggior distanze e avventurarsi in luoghi non coperti da prese di corrente come il giardino.
Il gioco si presenta con una grafica fumettosa e non particolarmente dettagliata, ma che comunque riesce a infondere nel giocatore il giusto feeling,per parlare come chi ne capisce potremmo dire che ha un ottimo character designer.

Dopo aver, in maniera evidentemente veloce e lacunosa, dato i necessari ragguagli riguardo al gioco passiamo a quello che è l’obiettivo del mio blog: la “sterile” ricerca di motivazioni per elevare il medium videogioco ad attività praticabile dai trentenni senza doversi vergognare con i genitori e parenti.

Giocando a questo gioco mi è sembrato di rivivere,in maniera virtuale ovvio, la mia infanzia e rivedo nel piccolo automa un poco dei miei nipoti.
Anche se so che molti di voi stanno pensando che l’uso esagerato di alcool e/o di droghe (altresì leggere) rendono comunque il vaneggio un’attività frequente nelle mie elucubrazioni vi esporrò la mia meditazione in merito.
Quando ero piccolo (e lo vedo soprattutto nei miei nipoti) tutto era grande, irraggiungibile ed enorme e ogni crescita (sia fisica sia nella conoscenza del corpo) portava al raggiungimento di un traguardo prima ritenuto inaccessibile. Per esempio i miei nipoti da piccoli DOVEVANO chiedere la merenda a madre/nonna/zio perché lo sportello era troppo in alto; adesso i miei nipoti si arrampicano sui mobili e riescono a prendere DA SOLI quello che vogliono. Proprio come il piccolo protagonista la crescita (di durata della pila) e l’acquisizione di conoscenze (come quella di arrampicarsi o di planare) permette di raggiungere punti irraggiungibili e di aprire il varco a nuove zone esplorabili.

Da piccolo mi guadagnavo i soldi per il gelato o per giocare a Double Dragon (sigh!!..) facendo piccoli lavori in casa come pulire sotto il tavolo della cucina, mettere a posto la mia cameretta o aiutare a portare la spesa ai miei genitori.

Se Chibi riceve punti cuore rendendo felici i padroni,io aiutando i miei genitori ricevevo le mitiche 500 lire di carta, ESCLUSIVAMENTE di carta.

Paolo “amarcord” Piermarini

26 giugno 2006

Nonno mi insegni a giocare?

Salve a tutti..
Mi do del bentornato e vado a scrivervi questo piccolo post....


Ieri sera pensavo, e già questo avvalorerebbe la creazione del post e potrebbe essere condizione sufficiente alla sua esistenza, su un concetto.
Stavo pensando al musical “MOULIN ROUGE” del 2001

film del regista/ scrittore e co-produttore Baz Luhrmann.
Film impreziosito dalla partecipazione dell’algida australiana Nicole Kidman, qui particolarmente ispirata e “calda”.
Film in bilico tra l'onirico, il reale e il surreale.
Scenografie meravigliose al contempo bohemien e barocche; coreografie dei balli al limite tra l’esibizione circense e la maestria dei grandi ballerini.
Regia e fotografia di primo livello, ritmo e pathos ben supportati e una sceneggiatura, che pur non creando niente di rivoluzionario, si eleva come miglior esponente del genere.
Dopo questo preambolo puramente registico, voglio ora approfondire l’aspetto che mi ha fatto riflettere.
Chi di voi ha visto il film, e immagino molti di voi, ricorderà benissimo come la colonna sonora, pur pescando nel catalogo POP degli ultimi cinquant’anni, riesca ad amalgamarsi in maniera perfetta con la tipologia “operettistica” del film.
Infatti, almeno secondo una disamina personalissima, l’opera cerca di re-inventare un genere confinato esclusivamente alle rappresentazioni LIVE, esempio lampante il nostro egregio Sferisterio, l’arena di Verona e i più grandi teatri del mondo.
Ma come rendere fruibile a tutti una rappresentazione “elitaria”(o che si atteggia tale)?Rendendola POP, ovvero inserendo
canzoni e musiche riconoscibili e tutti (alcuni facilmente intonabili a memoria) tra i quali “Lady Marmalade”, “Like a Virgin”, “The Show Must Go On” tutte modernizzare e rese ballabili.
Il coinvolgimento è completo: ottimi (e belli) interpreti, una storia d’amore al limite della predivibilità ma decisamente coinvolgente ed un carnet di canzoni conosciute, orecchiabili e canticchiabili durante l’ascolto.

Sento già i vostri pensieri affacciarsi dentro le vostre testoline davanti allo schermo del PC: “ma non era un blog di videogioco?” “perchè mi parli di quel mieloso film per donnette innamorate e uomini sensibili?”

La sperimentazione effettuata da Luhrmann, certamente non la prima nè la più riuscita, dovrebbe essere un esempio da seguire con maggiore dedizione dai creatori dei nostri (miei) passatempi digitali preferiti.
Unire il passato, seppur recente, dei vecchi giochi, con le conoscenze, le capacità tecniche e il senso della struttura ludica attuale.
Sperimentare unendo e mescolando l’intuitivi gameplay del passato con la magnificenza tecnica del presente; la fruibilità del passato con la profondità odierna.
Prendete ¼ della comicità di un Secret of Monkey Island, ¼ dell’epicità di Halo (rigorosamente il primo), ¼ del gameplay di God of War, a piacere poesia di ICO e maestosità di Shadow of the Colossus. Aggiungete la storia e la varietà di situazione di Shenmue; mescolate con vigore. Amalgamate con una discreta quantità di Sensibile Soccer (un pulsante UNO per fare tutto!). Fate scaldate da uno sviluppatore mecenate. Distribuire tramite un produttore che crede nel progetto. Servite caldo in una confezione cartonata con mappe, magliette,medaglioni e gadget creati ad uopo, guarnite con un manuale esaustivo e gustate..

Saluti

17 febbraio 2006

Sensi di colpa colossali – Shadow of the colossus.

Ammetto di essere spiazzato, sono basito (da quanto sognavo di poter usare questa espressione da “omino bufo”!) sento che c’è qualcosa che sta cambiando in me e questo mi toglie una delle poche certezze acquisite fino ad ora.. Io nei videogiochi voglio vincere; in tutte le accezioni del termine: arrivare primo, mettere K.O. il mio avversario, uccidere i nemici della libertà, sconfiggere i rapitori di innocenti ed indifesi, sbaragliare i miei avversari, vendicare mio padre/fratello, difendere il mio ideale, onorare la famiglia.. insomma IO VOGLIO VINCERE!! O no?

Vado a spiegarmi.
La SONY, e più precisamente la SCEI (Software House interna alla SONY) in barba alle consolle next-generation e al trend degli ultimi anni in base al quale ogni gioco deve contenere una sezione di guida, una FPS, una stealth e una platform, crea un gioco per la Playstation2 semplice semplice con un incipit nella norma, graficamente buono (ma al di sotto delle aspettative e degli standard a cui si è arrivato), con un frame rate (la fluidità delle immagini) instabile e ballerino, con (secondo alcuni) problemi di telecamera e (secondo molti) noioso.
Ma a parte le mere questioni tecniche questo gioco offre quello che pochissimi altri giochi riescono a dare in dosi modeste; sto parlando di sensazioni in tutte le salse: ammirazione, sbalordimento, tristezza, insicurezza e chi più ne ha più ne metta!
Il nostro protagonista arriva in un castello (tra l’altro architettonicamente stupendo) in sella al suo cavallo Agro, di cui parlerò più avanti, con in mano una ragazza priva di vita.
Non si conosce il legame tra i due ma è ipotizzabile che sia la sua amata. Per lei abbiamo rubato una spada sacra con la quale potremo uccidere dei colossi, necessario rito per la resurrezione della ragazza secondo una secolare leggenda.
Grazie ad un fascio luminoso della spada il ritrovamento dei colossi non è particolarmente difficoltoso, questo espediente si rende a mio avviso necessario vista la vastità della mappa di gioco.
Cavalcare in silenzio in sella al nostro fido Agro, accompagnati esclusivamente dal rumore degli zoccoli, dal fischiare del vento, dai richiami dei falchi, che talvolta accompagnano le nostre peregrinazione, è un’esperienza unica e coinvolgente. Fermarsi vicino ad un laghetto scendere per pregare (leggi salvare) su uno dei templi disposti nella mappa e vederlo andare a dissetarsi come un normale (e vivo) animale rende l’animo leggero e in pace. La simbiosi che il gioco riesce a creare tra il nostro simulacro ed il cavallo è qualcosa che va oltre ogni manuale del perfetto programmatore; come esempio posso citare la perdita del nostro destriero prima dell’ultimo colosso, la sua caduta in un crepaccio, oltre che inaspettata, è stato un colpo al cuore.
Il silenzio e l’armonia vengono impietosamente interrotti con una musica epica alla comparsa del ”nemico”, a proposito il gioco ha una colonna sonora di livelli altissimi con una realizzazione eccezionale grazie ad un’orchestra sinfonica magistralmente diretta.
La nostra presenza va ad interrompere un riposo millenario, l’aspetto ancestrale è deducibile dalla folta erba e dalla polvere che hanno avuto il tempo di crescere/posare sul corpo dei colossi, per alcuni il termine colosso potrebbe sembrare esagerato ma non è assolutamente sprecato, alcuni di questi, specialmente i primi, vedono il nostro avvento come una scocciatura e non avvertendo la minaccia farà si che mentre alcuni si gireranno per nulla infastiditi altri giocheranno con noi come potrebbe fare un gatto con un topo.
L’uccisione di questi marcantoni passa attraverso l’attento studio della conformazione materiale del nostro antagonista al fine di capire come arrampicarsi su di esso e colpirlo con la spada nei suoi “talloni d’Achille”; il gigante cercherà di scrollarsi di dosso il fastidioso insetto proprio come faremmo noi con una zanzara. La sfida il più delle volte è vinta in maniera semplice e intuitiva mentre a volte bisognerà provocarlo e farsi attaccare per poterlo risalire. Ogni colosso richiede, di media una quarantina di minuti per il suo abbattimento, riuscendo pertanto a completare il gioco in una decina d’ore.

Sento già un mormorio in fondo alla sala:“Ma allora dov’è che questo gioco si distingue dagli altri?”…calma e abbiate fede.

Ogni volta che colpiremo il titano i lamenti di dolore della creatura e consistente getto di liquido 'arterioso' nero come la notte presagiscono che qualcosa non va come i normali cliché videoludica ci hanno insegnato.
Nonostante alcuni handicap, come il non poter rimare aggrappati troppo a lungo, e la maestosità della creatura si percepisce che il nostro avversario ha ben poche possibilità di sconfiggerci e che il suo destino è inevitabilmente scritto: dovrà morire per far concludere il cerimoniale per rianimare l’amata.
L’ebbrezza vertiginosa dell’eliminazione ci cela una novità: stiamo sovvertendo un altro stereotipo videoludico: non dobbiamo ripristinare un equilibrio, ma alterarlo, distruggerlo per sempre.
E questo, man mano che procediamo con il safari dei colossi, quest’ultimi lo avvertono; temono per la loro estinzione ci vedono come un pericolo, un barbaro trucidatore che opera solo per scopi PURAMENTE egoistici, che machiavellicamente intendere raggiungere il suo fine.
La ctuscene che pone fine al combattimento (che abbiamo visto essere una non-lotta) coglie il giocatore con quello che non si aspetta, abbiamo sconfitto un nemico mi attendo una musica trionfate ed epica, mentre una coro piangente per la caduta dell’innocente gigante ci da un pugno allo stomaco. Abbiamo interrotto qualcosa di eterno, profanato qualcosa di sacro.
Nessun videogioco mi aveva mai dato l’idea di cosa da commettere un omicidio. Nessun sparattutto neanche il simulatore di sicari. Io non sono il giusto, l’unica colpa dei titani è quella di far parte un rito che non li riguarda ed io mi sento come Abramo che porta suo figlio come sacrificio a Dio, non è giusto ma è quello che si deve fare.
Dal corpo del caduto fuoriescono lingue nere che mi prendo e mi fanno perdere i sensi. Quando mi risveglio sono lungo nel castello circondato da ombre silenziose (una per ogni colosso) che mi guardano e mi giudicano e mentre l’amata, di colosso in colosso, riacquista un colorito più sano l’aspetto del nostro avatar peggiora e diventa corrotto.
Sono abituato ad uccidere nei giochi perché devo ristabilire la pace e l’ordine o per proteggere/vendicare qualcuno o qualcosa ma soprattutto perché non sento il peso delle conseguenze. Qui no, anzi sono colui che solitamente combatto ed abbatto, colui che destabilizza l’ordine e la cosa mi turba.

Sono disposto ad accettare i sensi di colpa del mio comportamento in un videogioco? Forse no.

Paolo

Dimenticavo il creatore e ideatore del gioco è Fumito Ueda creatore di ICO (http://frunti.blogspot.com/2005/09/si-sta-come-dautunno-sugli-alberi-le_20.html)

12 gennaio 2006

Cavalca il Serpente

Premessa necessaria e doverosa: questo non vuole essere una dissertazione o un saggio; non ne ho le capacità né tantomeno la cultura di base.
Ma l’argomento è molto interessante e soprattutto se ne può discutere a più livelli.
Si può approfondire, per chi ne ha la cultura e l’intelligenza sufficiente, o semplicemente parlarne tra amici intorno ad un tavolino di un pub mentre si gioca a freccette.
Naturalmente non parlerò dei DOORS o di Jim Morrison, come può far intendere il titolo; il tema di questo post è un videogioco “storico” Metal Gear Solid 2:Sons of Liberty (KONAMI 2001 – Playstation2-Xbox-PC), dove viene introdotto il concetto di METAREFERENZIALE nei videogiochi; parola difficile, spesso usata a sproposito (chissà magari anche in questo mio scritto…).
La scusa mi viene data dall’’anniversario della scomparsa di Bruno Fraschini autore di un ottimo libro “L’evoluzione del serpente” (sinceramente non sono sicuro del titolo, ma purtroppo non l’ho sottomano); l’argomento del libro è un videogioco: Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty; prodotto dalla KONAMI e diretto (è proprio il caso di dire) da Hideo Kojima.
Il libro, oltre a dare un ottimo riassunto della storia di Metal Gear, nata su MSX (una console di gioco ovviamente) nel 1987 offre una lettura, soggettiva, ma molto interrante, della storia, facendoci notare come l’autore del gioco, in effetto è difficile chiamarlo così, sia stato uno dei primi, o per meglio dire quello che ha avuto maggior influenza sul pubblico data la riconoscibilità del gioco, a scoprire le possibilità medianiche del medium videoludica.
Purtroppo per poter introdurre le argomentazioni dell’autore, ed in minima parte anche mie, dovrò “spoilerare” (neologismo di derivazione internettiana nata all’interno dei forum, che sta ad indicare la possibilità di anticipare i contenuti e la storia di un film/libro/videogioco eccetera…) in maniera palese la storia gli scopi di Kojima, quindi se non volete perdervi il gusto di scoprire la trama e, in particolar modo, di cogliere il messaggio del gioco vi consiglio di non continuare la lettura..
Bene… inizio raccontando quello che è alla base di tutto: l’hype (ovvero il desiderare intensamente un gioco o simile, termine anch’esso molto usato nei vari forum internettiani) che aveva colto tutti noi videogiocatori nell’attesa dell’uscita del secondo capitolo sulla console Sony, dato che il predecessore, Metal Gear Solid, è da molti considerato uno dei veri capolavori dei videogiochi, sia per la trama, che per la giocabilità e da molti altri fattori innovativi presenti alla sua uscita (19… …); con la presenza di alcune chicche, indimenticabili in particolare due: in un combattimento con un boss (Psycho Mantis) era necessario cambiare l’ingresso del joypad per comandare il nostro personaggio visto che la capacità di leggere il pensiero del nostro avversario faceva in modo di renderlo invincibile (il bello era che lo scambio di porte era solamente suggerito e non chiaramente indicato), il rimando ad altri giochi salvati nell’unità di memoria da parte dello stesso antagonista, portando ad un commento diverso a seconda dei dati di missione (numero dei salvataggi, game over, soldati uccisi, ecc…) e non (save-data di ISS Pro Evolution e Castlevania); immaginate la faccia del giocatore quando il nemico intende esattamente i giochi che sta giocando!!.
Tutti desideravamo giocare ancora nei panni di Snake (personaggio principale ed avatar di noi giocatori): avevamo finito la prima avventura (che poi prima non era vista la presenza di due capitoli per altre console, ma vista la scarsa diffusione, se non la mancanza di localizzazione per l’occidente di uno di essi, non sono diventati “famosi” al di fuori degli hardcore gamers) e abbiamo giocato le missioni aggiuntive, chiamate Virtual Mission, di addestramento.
Ed è proprio da qui che nasce la prima “genialata” di Kojima: la scena iniziale dell’incursione nella base nemica (tralasciando la premessa, opera di livello cinematografico), che richiama in maniera evidente quella del predecessore, ci fa credere in tutto e per tutto che il “protagonista” del gioco sia ancora Snake, mentre invece il soggetto principale è Raiden, deludendo le aspettative di moltissimi giocatori e facendo gridare allo scandalo.
Ma questo è tutto voluto, questo è quello a cui mira Hideo; il nuovo personaggio infatti è alla sua prima missione; fino al quel momento ha effettuato solo missioni virtuali (proprio come noi videogiocatori) ed è nato sotto il mito di Snake (proprio come noi videogiocatori), ma non ha mai potuto effettuare una scelta; proprio come noi che ci aspettavamo Snake e ci ritroviamo un ibrido (la fisionomia e la corporatura del soggetto sono volutamente neutrali poiché la non caratterizzazione non permette identificazione) non capace di operare nonostante l’elevato preparazione virtuale tanto da dover continuamente comunicare con un aiutante (il Colonnello) per capire cosa e come fare (questo è anche un espediente per fare da tutorial al giocatore…) e per questo noi non lo vogliamo, non lo accettiamo e non vorremmo utilizzarlo ma non possiamo farne a meno (ovviamente se vogliamo continuare il gioco).
Per aumentare la nostra identificazione (ma è un ulteriore tranello) possiamo/dobbiamo immettere i nostri dati sulla targhetta identificativa (avete presente le targhette di riconoscimento dei soldati americani?) di Raiden.
Da questo punto in poi inizia il “gioco” vero e proprio… pudicamente parlando, facendoci perdere di vista il disagio di “usare” un personaggio non voluto, visto che ha le stesse capacità del rimpianto Snake.
Ma dallo stesso punto in poi, soprattutto con l’ingresso in scena dei Patriots, Kojima inizia a stendere le fila della sua trama il messaggio dell’importanza dell’informazione. Una sottotrama ininfluente (se vogliamo estranea all’aspetto ludico) ma che per Kojima è il vero fulcro della suo opera.
Ma chi sono i Patriots? Non è così facile, anzi.. ma cerchiamo di essere il più chiari possibile a sicuro discapito dell’accuratezza della spiegazione. Nella spiegazione mi aiuterò utilizzando un passo della rivista on-line RING (
www.project-ring.com ahimè oramai defunto…)
I Patriots sono l’aspetto centrale e più l’elemento più seducente del videogioco. Scopo ultimo dei Patriots è la gestione dell’informazione mondiale; hanno ideato un programma per monitorare e ridirigere i flussi informativi mondiali in ogni forma, da quella telematica sino a raggiungere il condizionamento mentale umano. L’intento dichiarato dai Patriots, definito sul finire di MGS2, è quello di mondare le correnti di pensiero di tutte le divagazioni effimere e le elucubrazioni improduttive così da imprimere al genere umano quella spinta evolutiva che, altrimenti, impiegherebbe molto più tempo a presentarsi. I Patriots come filantropi dell’umanità tutta? Evidentemente NO!
Il gioco prosegue con alcuni intrecci narrativi e ludici che ne minano la natura stessa di videogioco; grazie ad un virus immesso da un compare di Raiden il programma dei Patriots va in palla e comincia a dare indicazioni random, alcuni metareferenziali come “spegni la console” o “stare così vicino alla televisione ti rovinerà gli occhi”, e dare indicazioni sbagliate e antiludiche, ad esempio siamo costretti a fare un combattimento con lo schermo ridotto a finestra, come se fosse la schermata di fine gioco con i titoli di coda che scorrono e la scritta “Fission Mailed” (storpiatura dichiaratamente voluta di “Missione Failed” ovvero missione fallita e quindi Game Over) chiaramente in vista.
Alla fine si scopre, sempre se è vero vista la molteplicità degli input avuti e dell’intreccio gordiano della trama, che noi stessi, partiti per distruggere i piani dei Patriots, siamo all’interno di un complesso test di funzionamento del loro programma, atto a provare le reazioni dello stesso di fronte ad eventi di “crisi”. A questo punto le linee di confine vero/falso e videogioco/testo di istruzione sono quantomeno esigue.

È un po’ difficile da seguire, ma continuiamo… cito per semplicità, mia ma anche per l’ottima trasposizione del significato del gioco:

“I Patriots sono un riflesso di Kojima, essi manovrano fuori dai giochi, monitorano gli eventi senza esserne materialmente toccati e manifestano la loro appartenenza ad un piano d’esistenza differente rispetto agli altri comprimari.
Seguendo le parole dei Patriots affiorerebbe un diffuso senso di sfiducia, una sfiducia che Kojima proverebbe nei confronti del mondo e che in MGS2 trapela più volte. Nelle parole dei Patriots, Kojima accuserebbe la futilità e l’inutile dibattersi dell’uomo. Piano dei Patriots è dotare il corpo dell’umanità di un capo consono, preciso ed infallibile che conduca le genti verso una verità unica ed immarcescibile, foss’anche creata a hoc. Tuttavia non è sbagliato intravedere nei Patriots lo specchio delle paure di Kojima e non i suoi diretti pensieri (i patrioti sono difatti portatori degli spettri dell’ingegneria genetica e del disastro ecologico, temi cari all’autore e già trattati in Metal Gear Solid per PSone). È dunque con la voce di Snake che Kojima tramanda la sua visione […]:
“Nessuno sa veramente chi o cosa è. […] Nel mondo non c’è una realtà assoluta. Molta di quella che chiamiamo realtà è una finzione e viceversa. Quello che pensi di stare vedendo è vero quando il cervello ti dice che è vero. […] Non si tratta di avere ragione o avere torto, ma di quanta fede sei disposto ad avere. […] Senti, non stare a ragionare troppo sulle parole.
Trova il significato dietro alle parole e poi decidi. Puoi trovare il tuo nome e il tuo futuro.”
In queste parole Kojima/Snake ripudia il modello assolutistico di verità universale e mette in luce l’ipotesi della verità individuale. Kojima, saggiamente, coglie la sfumatura effimera del cercare
risposte definitive che, per la natura mutevole dell’uomo e del mondo, non potremo avere mai. A fronte di ciò MGS2, da alcuni ritenuto un’opera di critica verso la videoiterazione, si presenta come messaggio rafforzativo del videogioco. Il videogioco è senza dubbio un’irrealtà, ma Kojima afferma
chiaramente che anche una finzione può trovare una dignità propria e seguire una strada fertile e coerente
.
Nell’epilogo Raiden complica ulteriormente la faccenda gettando la targhetta con il nostro nome, il nostro “vero” non il suo e decide, incredibilmente vista la storia che Lui preferisce il suo IO virtuale ma non per “questo falsoassoluto, piuttosto un verorelativo”.
L’impressione finale è che Kojima ha “videogiocato” con noi (cosa che potrebbe dare fastidio visto che noi abbiamo pagato il gioco) trasferendo la nostra personalità nell’avatar e giocando con le nostre sensazioni ed emozioni e fornendoci un manuale di “modus operandi” per la nostra vita, noi giochiamo ma capita che mentre siamo immersi nella trama cercando di estrapolare i significati e le verità nascoste ci si dimentichi di stare giocando con un videogioco.
Kojima, tramite il Colonnello (chi ci aiutava all’inizio ricordate) che poi parla tramite i Patriots, da un’analisi inflessibile dell’umanità: gretta, insignificante e accumulatrice di frivolezze; non capace di filtrare gli input recepiti, dando troppa importanza alle piccole cose (e personali) perdendo di vista il vero obbiettivo della crescita culturale del ”uomo”.

Il gioco si conclude con questa affermazione paradigmatica:
“i Patriots sono morti 100 anni prima; significa forse che i principi di disciplina e moralità alla base della società (americana) sono già da tempo maschere vuote?”
D’altra parte sono i Patriots stessi a dirsi figli del credo della nazione americana, ecco le esatte parole:

"La Casa Bianca è stato il nutrimento primordiale per noi, la base per la nostra evoluzione. Sotto la protezione della bandiera, nutriti dalla religione nazionale, il capitalismo. Noi non abbiamo forma, siamo quella disciplina e quella moralità a cui gli americani fanno sempre appello. Come potete sperare di eliminarci? Finché esiste questa nazione, esisteremo anche noi.”

“Hideo Kojima, con MGS2, aveva in realtà dato una svolta decisiva verso l'evoluzione del videogioco quale strumento di comunicazione. Il gioco, il divertimento stesso, diveniva il mezzo per poter raggiungere la coscienza del giocatore.
Bastava guardarsi allo specchio per capire il ruolo di un personaggio come Raiden. Bastava guardare al significato dietro le parole di quei dialoghi all'apparenza senza logica, per rendersi conto che ciò che
Kojima stava tentando di fare non era narrare una semplice storia, ma parlare al/del giocatore e raccontare la società stessa.”

Nota: la Metareferenzialità è forma di linguaggio espressivo che, usando i mezzi di un dato contesto (pittura, fotografia, scrittura, ecc…) include le inerenze ‘esterne’ del contesto in dizione.
Esempio: in un famoso quadro di Hescher una mano affiora dal dipinto nel dipingere l’opera stessa. La
metareferenzialità spinge il fruitore dell’opera (lettore, spettatore, giocatore, ecc…) ad entrare e partecipare.

Spero di avervi almeno incuriosito con questa mio breve e personale riassunto di quanto letto/capito su Metal Gear Solid e Hideo Kojima.
Sicuramente c’è molta più carne al fuoco, cercherò di ampliare il discorso in futuro, ma, se l’argomento vi stuzzica, vi consiglio di fare un po’ di ricerche.

Paolo
P.S. credetemi la chiarezza di esposizione non è il forte, ma nel caso di MGS2 risulta quasi impossibile senza conoscere il videogioco…

09 gennaio 2006

incrociamo le dita...

Lo so... non sono MAI state all'altezza delle controparti videoludiche, ma in questo caso ci sono tutti (?) i presupposti per creare qualcosa di buono, se non eccellente..
Ma di cosa sto parlando? E' ovvio delle trasposizioni cinematografiche dei videogiochi!!
Procediamo con ordine.
Chi non odia Bill Gates e la Microsoft (va bene tutti odiamo le schermate blu di Windows) o non lo odia a sufficienza ed ha comprato la sua console XBOX ha, necessariamente, goduto, ludicamente parlando, di uno dei capolavori (IMHO) nella categoria FPS (First Personal Shooter ovvero gli sparattutto in prima persona) di tutti i tempi: HALO: Combat Evolved.
La notizia, non recentissima in verità, è che anche da questo verrà tratto un film ad alto budget, ma quello che fa ben sperare è che la BUNGIE, produttrice del videogioco, a posto dei paletti ben precisi alla realizzazione del film, in modo da non creare un obbrobrio di trasposizione (chi ha detto Resident Evil?).
Il film attualmente è in fase di Pre-production, ma le aspettative sono alte e tutti ci aspettiamo un film all'altezza del videogioco, preferibilmente non del seguito Halo2, che nonostante gli ottimi voti è considerato da molti non degno del predecessore.
Altra trasposizione di un videogioco, ma questo in uscita a breve i Europa è DOOM

Come ben sa chi ha giocato ad una delle versioni di DOOM, la trama non è certamente di primo livello e non offre spunti interessanti, ed è proprio per questo che attendo questo film con ansia; la trama GIA' so che non sarà interessante e che non è stato un aspetto che i produttori hanno voluto mettere in risalto.

Lo spunto interessante è dato dalla regia del film, infatti sono state utilizzate inquadrature in FPS-style per rendere il film quanto più vicino possibile al gioco. L'utilizzo di ambientazioni "scure" avvicina di molto l'esperienza del videogioco, aspettiamo di vederlo per trarre delle conclusioni definitive, ma le aspettative sono alte..

Comunque c'è già chi l'ha definito come:

"un film da vedere per ogni appassionato di videogiochi, che si troverà un prodotto degno della passione per anni abbracciata come solo il primo lungometraggio di Resident Evil era riuscito a fare. Un divertente popcorn movie senza pretese, per tutti gli altri. "

Paolo





05 gennaio 2006

e adesso qualcosa di completamente diverso..

Alex Garland - L’ultima spiaggia - The Beach (1997)
Il Game Over è la cosa che preferisco dei videogiochi. O meglio. E’ il brevissimo intervallo di tempo che precede il Game Over che mi affascina. […] Quando cioè il giocatore comprende che sta per morire. Ognuno reagisce in modo diverso. Alcuni bestemmiano e si arrabbiano. Altri singhiozzano o restano senza fiato. Altri ancora gridano. Da quando ho cominciato a giocare, dodici anni fa, ne ho sentita di urla.”

Viktor Pelevin, - Il Principe del Gosplan (Prince of Persia)
È già più di un anno che corri nel labirinto,” continuò Petjia “ma ti sei mai chiesto se è reale o no?”
Chi?”
Il labirinto
Vuoi dire se esiste o no?”
Si
Saša ci rifletté un po’ sopra.
Magari esiste. O sarebbe più preciso dire che esiste nella misura in cui esiste il principe. Poiché il labirinto esiste solo per lui.”
Per essere più precisi fino in fondo,” disse Petja “sia il labirinto sia la figurina esistono solo per chi guarda lo schermo del monitor.”
“Già. Perché?”

Perché sia il labirinto, sia la figurina possono mostrarci solo in lui. Come pure lo schermo, d’altronde.”.

James G. Ballard
Ci sono questi ragazzini che giocano a Street Fighter II, 7, 8, 9 anni, che poi passano a videogiochi più avanzati... non riusciranno mai a leggere un racconto. Penso che ci sarà sempre un pubblico per i racconti scritti, ma la maggior parte dei romanzi verranno adattati alla Realtà Virtuale ne sono sicuro. Probabilmente il romanzo come lo conosciamo oggi diventerà una curiosità da specialista”.

Henry Jenkins
I videogiochi sono arte. Un’arte popolare. Un’arte emergente. Un’arte largamente incompresa. In ogni caso, arte”.

Scully, da “First Person Shooter”, The X-Files
I videogiochi? Una valvola di sfogo per maschi immaturi, asociali e dall’alto livello di testosterone

Marcel Duchamp
Non tutti gli artisti sono giocatori di scacchi, ma tutti i giocatori di scacchi sono artisti

Videogioco in romanzo
La pratica di tradurre in romanzo i videogiochi più popolari sta diventando sempre più diffusa. Dopo la “novelizzazione” (traduzione letterale dell’inglese “novelization” che si riferisce al processo di traduzione in forma narrativa di un film o videogioco) di Final Fantasy ad opera di Dean Wesley Smith (2001), Stephanie Danelle Perry ha firmato i sei volumi tratti da Resident Evil, il survival horror per antonomasia. Nel frattempo, la casa editrice americana Ballatine Books ha stretto un accordo con la Del Ray Book, un’etichetta specializzata in romanzi di fantascienza, che prevede la pubblicazione di una serie di romanzi basati sui più popolari giochi per Xbox. I primi titoli previsti sono il seguito di Halo: Fall of Reach di Eric Nylund, la novellizzazione di The Unseen e di Crimson Skies. Il videogioco, inizialmente considerato una forma deteriore, impura di letteratura, diventa, paradossalmente, la sorgente primaria del romanzo. Una letteratura popolare, certo. Ma pur sempre letteratura.”

“Gli “sconfinamenti” videoludici negli ambiti della cultura e dell’arte sono così numerosi e significativi da rendere necessaria un’analisi sistematica e approfondita…… Il punto di arrivo della nostra breve perlustrazione rappresenta allora il punto di partenza per un nuovo viaggio nei territori del videogioco. Dove ci porteranno i suoi “sconfina- menti”? In altre parole, dove comincia il videogioco? Dove finisce? Ma, soprattutto, finisce?”


N.d.A.: Le citazioni e le esposizioni sono tratti da “Per una cultura del videogame. Teorie e prassi del videogiocare” (Unicopli, 2002) a cura di Matteo Bittanti